Vi sono porte, nella nostra interiorità, chiuse e dimenticate. Sono le porte di accesso a stanze di dolore così grande da destabilizzarci. Per sicurezza quel dolore l'abbiamo chiuso e chiave, buttando pure via la chiave. Eppure quel dolore ha il potere di infilarsi negli spifferi di quella porta e torturarci lo stesso. Lo fa in modo subdolo attraverso gesti automatici, odori, suoni, sapori. E di colpo lo avvertiamo scombussolarci senza comprenderne la natura. È il dolore nascosto, profondo, che ci portiamo dietro. Spesso facciamo di tutto per dimenticarlo, per ribellarci ad esso. Ma si tratta di una zavorra che non possiamo abbandonare. I nostri comportamenti ne sono condizionati, le nostre relazioni colpite. A volte capita di scorgere porte di questo tipo e, stazionandoci davanti, chiedersi cosa fare, come aprirle. Cerchiamo una chiave di lettura che non troviamo e ci rattristiamo. Ma quando le vediamo, quelle porte hanno il potere di muovere qualcosa in noi, anche se non ne siamo consapevoli. La stessa visione ha scardinato una barriera invisibile del sentire. Capita così che, a poco a poco, la porta si schiuda lasciandoci intravedere il suo interno. Vedere non ci piace, ma allo stesso tempo non riusciamo a smettere di sbirciare. Qualcosa in noi si scioglie, la ferita torna a sanguinare in attesa della guarigione. Ci vuole tempo e pazienza, ma una volta scorta quella porta non si potrà dimenticare una seconda volta e andrà esplorata. La maturità accompagnerà l'esperienza e il distacco la nutrirà della capacità di elaborare il vissuto con maggiore oggettività.
È proprio l'oggettività la chiave in grado di aprire la porta per osservarne il contenuto.
L'oggettività dello spettatore che prende atto del passato, ne osserva scorrere i momenti, attribuisce loro un significato evolutivo per poi lasciarli andare.
Oropa - Foto Donatella Coda Zabetta