"La cultura è ciò che resta quando si dimentica tutto"
ha detto Emile Henriot.
Mi piace, ma lo integrerei così: puoi avere piena coscienza di ciò che sai, ma devi sempre tener presente che ciò che ignori è ancora più vasto. In un mondo in continua trasformazione, credo che la miglior cultura si manifesti quando si è consapevoli di non sapere.
Spesso accumuliamo conoscenza e doniamo ad essa immobilità catalogandola negli schemi mentali che ci appartengono. Questo atteggiamento supporta chiusura mentale e giudizio.
Personalmente, trattengo quanto ho imparato attraverso l'esperienza fino al momento in cui una nuova esperienza non lo mette in discussione e ne varia i contenuti.
Spesse volte, in passato, ho pensato quanto fosse importante essere pronti per determinate esperienze.
Poi un paio di mesi fa, un amico e maestro di vita, Eddy Seferian, mi ha donato questo insegnamento operando nel mio cuore una vera rivoluzione copernicana: "Non si tratta di essere pronti, ma aperti".
Ho accolto il suo insegnamento, l'ho interiorizzato, sperimentato e ho compreso che solo la chiusura può fermare la mia consapevolezza; una chiusura (non ha importanza se determinata dalla paura, da una debolezza o, anche semplicemente, dal giudizio) in grado di bloccare e annullare l'esperienza. Una chiusura che mi rende incapace di aprirmi alla vita, al suo mistero e alla sua bellezza.
Così, ora, quando percepisco in me un blocco, centro tutto il mio lavoro sull'apertura.
Non è mai semplice superare un blocco che ci appartiene in quanto presuppone un grande lavoro di scavo e di pulizia.
Si tratta, infatti, di entrare nel mare in tempesta di un'interiorità in subbuglio mantenendosi aperti all'esperienza.
E' facile perdersi nel buio delle proprie resistenze e agitarsi: l'apertura è ascolto, è capacità di affondare nell'esperienza per osservarla, comprenderla, elaborarla e trascenderla.
Il movimento è interiore e l'immobilità esteriore ne è il corollario: l'apertura è esperienza che si manifesta, è vita che prende forma.