sabato 31 gennaio 2015

LA RIGIDITA' CHE CI APPESANTISCE

E' un periodo faticoso. Siamo di fronte ad una scelta: riconoscere il cuore all'interno della materia. Finora non ci abbiamo molto pensato, ma da dicembre abbiamo come subito un'accelerazione in questo senso. Emerge la nostra immobilità e dobbiamo farci i conti. 
La morte è immobilità, ma questa rigidità non è solo fisica e può essere  determinata anche da una situazione di blocco che ci appartiene o da una vita vissuta secondo schemi e abitudini che non rispecchiano il nostro cuore. Tutto l'universo lavora per renderci consapevoli di questo. 
In astrale è presente questa energia di "morte/immobilità" perché appartiene a molte persone e ai loro pensieri in questo momento. Se risuoniamo vibrazionalmente con essa, per via del nostro modo d'essere o dei nostri pensieri, oltre a percepire il peso della nostra rigidità ci leghiamo ad un bagaglio enorme e ce lo portiamo dietro. 
Ecco perché tante influenze, la percezione del freddo, tante cervicali, lombalgie, mal di schiena, tante depressioni, esaurimenti, suicidi e atti di pazzia. Questo è quello che sta accadendo. 
Ovviamente è semplice vedere la"morte/immobilità/rigidità" negli altri, ma è difficilissimo coglierla in noi. Per questo la proiettiamo: per divenirne consapevoli e poter divenire parte attiva nella nostra trasformazione. 
Non possiamo fare assolutamente nulla per gli altri, ma per noi stessi possiamo fare molto. Come? 
Consigli pratici: rimanere il più possibile centrati all'interno, respirazione e movimento consapevoli. Per movimento consapevole non intendo la frenesia del movimento automatico e stravolto di pensieri a cui siamo abituati, ma un movimento, anche lento, indissolubilmente collegato ad uno stato di presenza. 
Lavo i pavimenti? Bene, ascolto le mie mani, il mio corpo che si flette, il contatto con la terra: sono nel mio corpo e non nella mia mente. Se i pensieri partono a mille, respiro e torno al corpo.
Umiltà ed esercizio e si riparte, per imparare a cambiare gli schemi a cui sono abituato.
Se sono rigido, difficilmente quando mi fermo mi sento a mio agio. Mi trovo a fare i conti con  questa immobilità. E allora scappo via e corro,  mi invento duemila cose e mi preoccupo per gli altri. Mi muovo virtualmente per non trovarmi a fare i conti con il mio disagio, che rimane imperterrito al suo posto ad aspettare che mi svegli.
Imparare a stare fermi e muoversi poco per volta in modo consapevole è la via per alleggerire questo peso che pare schiacciarci al suolo. 
Vuoi essere inerte come la materia, trasformati in materia! Un po' cruda, ma credo sia arrivato il momento di far crollare il velo dell'illusione che ci ha trattenuto fin troppo a lungo. 
Il cuore non vede l'ora di riportarci alla vita, quella vera, non quella virtuale della mente. 
Con gioia apriamoci alle sue pulsazioni.







mercoledì 28 gennaio 2015

UN MONDO VIRTUALE

Ogni giorno viviamo gran parte del nostro tempo in un mondo virtuale: materialmente, quando viaggiamo in rete, psicologicamente, quando i pensieri catturano la nostra attenzione. 
Ci stacchiamo dal virtuale per immergerci nel qui e ora molto raramente: anche quando ci dedichiamo ad attività pratiche, che coinvolgendo il corpo richiedono la nostra presenza, difficilmente riusciamo a staccare la mente. 
Viviamo la vita proiettati nel futuro o immersi nei ricordi del passato. E ci perdiamo il presente, per poi riviverlo come passato. 
Viviamo la vita in una sorta di "morte apparente" e allo stesso tempo abbiamo paura di morire.
La contraddizione dei nostri tempi. Siamo immobili nel presente, ma frenetici nel virtuale.
E soffriamo, siamo stanchi, spesso frustrati e arrabbiati. La gioia questa sconosciuta.
La gioia è vita in movimento, è percezione del proprio corpo. 
Il corpo stesso ci rimanda la nostra immobilità e il malessere da essa generato: spalle contratte, cervicalgie, lombosciatalgie, mal di schiena, tensioni e rigidità. 
E come prendiamo questi segnali nel nostro mondo virtuale? Percependo il corpo come un ostacolo e intensificando il nostro movimento virtuale in un inconscio tentativo verso il benessere.
Il fermarsi ci riporta a bomba alla nostra "morte" e riempiamo così ogni singolo spazio della nostra giornata inseguendo "priorità" indispensabili e inderogabili per sentirci vivi.
Fino al punto in cui il nostro corpo ne ha piene le tasche di noi e ci abbatte facendoci sentire distrutti. 
Il corpo ci ama più di quanto noi stessi ci amiamo. Prospettiva inquietante. 
Il corpo ci riporta di forza a casa, ma non chiude la porta e ci lascia liberi di scegliere se restare svegli o addormentarci nuovamente nel nostro mondo virtuale.





lunedì 26 gennaio 2015

IL PERCORSO SPIRITUALE


Non sempre condivido il pensiero di Aivanhov, ma questo estratto è importante; spesso si parla e si legge di spiritualità, si frequentano corsi a raffica, dimenticando quanto sia determinante l'esperienza personale nella crescita. Ogni insegnamento deve essere rielaborato e sperimentato, non accolto supinamente e questo richiede tempo, pazienza, umiltà e grande disciplina. Siamo abituati a fare tutto con la mente, ma la vera crescita sarà il corpo a determinarla.

« Anche quando decidono di impegnarsi sul cammino della spiritualità, quante persone rimangono deformate dall'abitudine – tanto diffusa in quest'epoca – di accumulare conoscenze, di andare ovunque per essere al corrente di tutto senza mai fare un lavoro in profondità su se stesse! Non si può negare che è proprio grazie alla loro curiosità se gli esseri umani hanno fatto giganteschi progressi in molti campi, ma per la vita spirituale si tratta di un pessimo metodo.
Il lavoro spirituale presuppone che ci si attenga a un sistema filosofico e che lo si approfondisca. Altrimenti nell'organismo psichico si verifica ciò che accade nell'organismo fisico: chi assorbe ogni genere di elementi disparati si procura un'indigestione e vomita; allo stesso modo lo stomaco psichico può soffrire di indigestione a causa di tutto ciò che si è voluto fargli ingurgitare. Dunque, se volete veramente progredire nella vita spirituale, cercate di attenervi a un solo sistema: questo sarà come l'armatura dell'edificio interiore che siete intenti a costruire portando ogni giorno nuovi materiali. »

Omraam Mikhaël Aïvanhov



giovedì 22 gennaio 2015

RIBELLIONE O SOTTOMISSIONE

Di fronte ad una situazione che minaccia il nostro benessere, le reazioni possono essere molto differenti. C'è chi sbotta come un vulcano in eruzione e chi si chiude a riccio trasformando l'ostilità in implosione. Non vi è elaborazione, ma re-azione: si mette cioè in atto automaticamente il comportamento a cui si è abituati. In entrambi i casi è sotteso un sentimento di ribellione non ancora elaborato proprio per il suo potere di dirigere il nostro comportamento: è differente solo il modo di manifestarlo. I binari che seguiremo sono sempre gli stessi, a variare sarà solo la direzione che intraprenderemo per mettere a tacere quello che proviamo. 
Non è facile rompere uno schema quando un interruttore interno innesca automaticamente l'accensione, ma, se lo si vuole veramente, lo si può fare, per stare meglio con se stessi. In fondo il benessere nasce dall'accettazione di sé.  E la capacità di elaborare la rabbia per lasciarla andare senza distruggere qualcuno o autodistruggersi è uno strumento consapevole molto importante per uno stato di armonia.
Solitamente controlliamo la rabbia, perché quando l'abbiamo espressa, magari da bambini, ci hanno ripreso e ci hanno fatto sentire sbagliati o ci hanno urlato ancora più forte o ci hanno insegnato che non sta bene, per educazione. E così ce la trasciniamo dietro fino a saturazione, per poi sbottare o implodere per sfinimento.
Come una pentola a pressione con l'acqua in piena ebollizione: alziamo il coperchio, lasciamo uscire un po' di vapore e richiudiamo il tutto. Pericolo scampato, ma pur sempre presente. Forse dovremmo provare a osservare la fiamma sotto la pentola, invece di mantenerci in uno stato perenne di tensione.
Vedere quella fiamma significa accettare che una grande energia ci appartiene e quando non ci permettiamo o non ci permettono di manifestarla proviamo rabbia. La rabbia è un'emozione naturale che evidenzia uno stato di disagio e in qualche modo ci rende consapevoli che è necessario un cambiamento per stare bene. Infatti, se qualcosa ci infastidisce al punto da scatenare una rabbia furibonda e quindi un'evidente reazione di difesa, ha a che fare con una debolezza o paura che preferiremmo non avere o quanto meno non vedere. La paura di essere chi siamo, cioè quel fuoco interiore (sì propio quello sotto la pentola) che spinge per venire alla Luce, ma si trova a fare i conti con dei binari prefissati (il coperchio e la pentola) e si trasforma in un'energia compressa (acqua in ebollizione continua) e incontrollabile. Se noi ci identifichiamo con l'acqua ci troveremo a fare i conti con il calore che ci fa ribollire e con la pentola sentendoci in un mare di guai. Se ci identifichiamo con il fuoco e osserviamo che effetto ci fa il trattenere o comprimere, sarà semplice comprendere che se non togliamo il coperchio non saremo mai in grado di dire la nostra senza scoppiare prima per sfinimento. Vivremo controllando la nostra vita e dando spazio a fugaci sfuriate o implosioni per continuare a sopravvivere.
Dov'è la creatività in tutto questo? Dov'è quel fuoco? Dov'è il fluire della vita?
Se non facciamo attenzione e sbagliamo il momento fatidico del sollevamento coperchio, finirà che l'acqua traboccherà spegnendo il fuoco e trasformandoci in una bella pentola d'acciaio piena d'acqua gelata.



martedì 20 gennaio 2015

QUANDO CI VUOLE UN BEL SONORO "NO"

Senza la capacità di dire di no,  
l'assenso è una semplice forma di sottomissione 
e non la libera espressione della propria volontà.

A. Lowen - Il piacere



A volte prendere posizione e proferire un sano NO è veramente faticoso. Perché?
La mente risponderebbe immediatamente ... per non dover affrontare discussioni, conseguenze... meglio lasciar correre ...
Il cuore, molto più riflessivo, sussurrerebbe: "Quel no ti rappresenta: hai abbastanza fiducia in te stesso da portarlo avanti?"

lunedì 19 gennaio 2015

SCETTICISMO E INDIPENDENZA

"E' stato sempre l'intelletto scettico, quando ne avrei preferito uno silenzioso, a sussurrarmi dubbi, a tagliarmi fuori dal semplicistico entusiasmo altrui e a gettarmi in una desolata solitudine."

Bertrand Russel -  Portraits from Memory



Un individualista forma il proprio pensiero in base all'esperienza. La conoscenza non è accolta supinamente, ma rielaborata, assimilata o lasciata andare. La libertà di pensiero non ha bisogno di sicurezze né di conferme. 
Essere scettici non significa essere negativi o sfiduciati in quanto la vera critica richiede esperienza e oggettività. Criticare per conoscenza acquisita è segno di ristrettezza mentale. La creatività nasce da un continuo sforzo di integrazione tra mondo oggettivo e soggettivo e non può fare a meno della critica. Ogni nuova scoperta è derivata dalla negazione di concetti già stabiliti attraverso domande tese a trascendere i modi di pensare precedenti. La mente indagatrice lascia spazio al cuore di manifestarsi e si apre all'universo con curiosità ed entusiasmo. 


domenica 18 gennaio 2015

UN CERCHIO DI ENERGIA

Siamo ormai consapevoli che tutto è energia. 
Einstein con la teoria della relatività ristretta ci ha aperto un mondo. 
Se tutto è energia, la differenziazione che osserviamo è determinata dal livello vibrazionale di questa energia. 
L'uomo racchiude in sé diversi livelli vibrazionali che vanno da quello più denso del corpo fisico per giungere a quello più sottile dell'essenza spirituale. 
L'illuminazione per giungere all'Io (IO inteso come essere realizzato e non come ego) è l'allineamento di tutti i corpi sottili: le diverse energie che ci appartengono entrano in risonanza in modo armonico tra loro. Questo stato di presenza apre l'accesso all'essenza spirituale e sposta il nostro centro nel cuore. Lo Spirito dirige la materia. La mente è al servizio del cuore. L'energia pensiero si manifesta. Per giungere a questo livello di consapevolezza vi è un lungo e faticoso percorso che partendo dal piano vibrazionale più denso, quello fisico, deve creare quell'armonia necessaria all'accesso ai piani sottili superiori. Le paure, le debolezze non accettate, le emozioni formano come degli addensamenti energetici (dei blocchi) che non permettono di procedere in questo cammino fin tanto che non vengono sciolti. 
Immaginiamo una circonferenza: il percorso si dispiega dalla periferia al centro del cerchio. La circonferenza rappresenta la nostra fisicità. Ovviamente è come essere su una giostra in movimento: se trovo posto al centro (danze sufi) tutto intorno potrà girare e io non perderò il mio equilibrio, ma se trovo posto sulla circonferenza girerò insieme a tutto il resto e mi sentirò molto instabile e insicuro. Questo è il primo passaggio. Abbandonare i punti di riferimento delle circonferenza, che ci illudiamo siano la fonte della nostra sicurezza, per incamminarsi lungo il suo raggio e giungere al centro. 
Il punto in cui ciascuno di noi si trova ha una propria frequenza vibrazionale e determina il mondo con cui ci si relaziona. Se siamo immersi nella circonferenza, ci relazioneremo con la circonferenza. Se siamo al centro, ci relazioneremo con tutto l'insieme con consapevolezza, perché in noi racchiuderemo la comprensione di tutti i livelli vibrazionali e non apparterremo a uno solo di essi. Avremo abbandonato ogni attaccamento e saremo liberi di essere.    





venerdì 16 gennaio 2015

UN CUORE DI LUCE

Il vento soffia forte formando tornadi: 
tutto sembra essere in balia degli eventi.
In piedi osservo e ascolto il rumore, la forza e l'energia della natura.
Il cuore silenzioso si ritrova nella Luce
per mettervi radici.
Il vento soffia forte formando tornadi:
il cuore di Luce non viene toccato.
Attende, rifulge e si espande
come una solida quercia dalla terra al cielo.
Altri potranno trovarvi riparo, pace e silenzio.
Tutto si trasforma.





mercoledì 14 gennaio 2015

OSSERVARSI PER OSSERVARE

Spesso guardiamo le persone senza vedere altro che la loro apparenza e parliamo con le persone senza realmente ascoltare quello che ci stanno raccontando. Siamo così centrati su noi stessi e distratti dai nostri pensieri da rimandare loro la semplice apparenza di un corpo fisico: la stessa che, a nostra volta, siamo pronti a percepire. Non esiste un vero scambio energetico, in quanto ognuno rimane chiuso nel bozzolo dei propri pensieri, dietro una barriera che non permette di dare né di ricevere.
Si perde la capacità empatica dell'ascolto di cuore per lasciar spazio alla mente con il suo continuo soppesare e controllare tutto in difesa di quello che è il "mio benessere". 
Se questo atteggiamento ci facesse stare bene potrebbe essere un'ottima soluzione, ma se ci fermiamo per ascoltarci, sentiamo il peso del nostro isolamento e del carico emotivo trattenuto.
Allora, perché rimaniamo così ostinatamente chiusi in noi stessi?
Spesso sento ripetere ... perché devo essere sempre io a dare?
Se non si è in grado di dare, non si è in grado neanche di ricevere. Si è chiusi all'energia.
Lasciamo da parte la bilancia mentale del tanto mi dà tanto e proviamo per un giorno a lasciarci andare all'energia del cuore e a fare quello che sentiamo, senza filtrarlo. Proviamo a offrire senza aspettative e ci accorgeremo,  ben presto, della ricchezza che l'aprirsi al mondo genera.
Non restiamo in un film in bianco e nero per bisogno di sicurezza e apriamoci ai colori della vita, prendiamoci i nostri rischi, viviamo la gioia e anche il dolore se capita!
Non rinunciamo, per paura, alla bellezza, scegliendo un viaggio con fotogrammi sempre uguali!




martedì 13 gennaio 2015

POTERE O PIACERE?

Estratto da "Il piacere" di Alexander Lowen:

"Il potere è l'opposto del piacere. Ha con il piacere lo stesso rapporto che l'Io ha con il corpo. Il piacere sgorga dal libero flusso di sensazioni e di energia all'interno del corpo o tra il corpo e l'ambiente. Il potere si sviluppa tramite il controllo e la delimitazione dell'energia. ....  Il potere si sviluppa dal controllo e opera tramite il controllo. Non ha altri modi d'azione. ...
Il piacere è il senso di armonia tra un organismo e il suo ambiente. Questo non è un concetto statico, perché l'ambiente è in continuo mutamento, fornendo le opportunità per nuovi e più intensi piaceri. Il potere, invece, è una forza che porta al controllo e alla disgregazione. Erige un muro tra l'uomo e il suo ambiente naturale. Lo protegge, ma lo isola anche."



Molto interessante questo estratto di Lowen e la sua riflessione su potere e piacere.  
Spesso ricerchiamo il piacere, ma non siamo disposti a lasciar andare la sicurezza del controllo.
Ricerchiamo il movimento e l'espansione, non volendo però abbandonare la rigidità dei nostri schemi mentali. Vorremmo controllare anche il piacere e dirigerlo, se possibile. Ma non si può. Allora diamo una botta al cerchio per farlo girare e una botta alla botte per controllare che la struttura tenga.
Difficile far rotolare una botte quadrata. Più che piacere scatena dolore.







domenica 11 gennaio 2015

IL PESO DELLA LEGGEREZZA

Il periodo storico che stiamo vivendo non lascia grande spazio alla leggerezza del fluire con la vita.
E' necessario mantenere il proprio sguardo attivamente centrato sulla Luce per non lasciarsi travolgere da emozioni distruttive quali la rabbia e l'odio o dalle notizie di morte e violenza che giornalmente si sentono.
Proprio quando il buio sembra avvolgere la Terra, anche una piccola Luce può fare molto: può accendere la speranza, può segnare una direzione, può riscaldare i cuori e illuminarli.
Quella piccola Luce sente inevitabilmente il peso della leggerezza, ma, come Venere, che illumina per prima il cielo all'imbrunire, è consapevole che presto si aggiungeranno altre stelle a rendere il buio della notte uno splendido capolavoro.





venerdì 9 gennaio 2015

IL SULTANO E SAN FRANCESCO

Questo articolo di Terzani è  tuttora attualissimo, sebbene sia stato scritto nel 2001. 
Trovare il coraggio di ascoltare il proprio cuore, tacitando anche solo per pochi attimi la mente, è molto importante in questa atmosfera carica di odio e di rabbia. 
Ieri, ho scelto di pubblicare poche righe, invitando al silenzio e alla meditazione. 
Oggi voglio guardare alle cose cambiando prospettiva. 




Il Sultano e San FrancescoNon possiamo rinunciare alla speranza
<< Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri già grande e tu proponesti di scambiarci delle “Lettere da due mondi diversi”: io dalla Cina dell’immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall’America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma è in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti.
Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l’impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo. Ti scrivo anche – e pubblicamente per questo – per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. Là morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana – la ragione; il meglio del cuore – la compassione.
Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. “Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia”, scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all’indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui usò di quel consapevole silenzio per scrivere ‘Gli ultimi giorni dell’umanita’, un’opera che sembra essere ancora di un’inquietante attualità.
Pensare quel che pensi e scriverlo è un tuo diritto. Il problema è però che, grazie alla tua notorietà, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta. Il nostro di ora è un momento di straordinaria importanza. L’orrore indicibile è appena cominciato, ma è ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. E un momento anche di enorme responsabilità perchè certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti più bassi, ad aizzare la bestia dell’odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecità delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l’uccidere. “Conquistare le passioni mi pare di gran lunga più difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me”, scriveva nel 1925 quella bell’anima di Gandhi. Ed aggiungeva: “Finché l’uomo non si metterà di sua volontà all’ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sarà per lui alcuna salvezza”.
E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non è nella tua rabbia accalorata, né nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela più accettabile, “Libertà duratura”. O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo è mondo non c’è stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sarà nemmeno questa.
Quel che ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. E una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’aver davanti prima dell’11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di nulla, tanto meno all’inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta. Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza – ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un’altra nostra e così via.
Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari “intelligente”, di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui. Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologiche – Stati Uniti in testa – d’impegnarsi solennemente con tutta l’umanità a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilità. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale – di per sé un’arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l’orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta.
In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates bis Mozart (L’arte di non essere governati: l’etica politica da Socrate a Mozart). L’autore è Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all’Università di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff è che la politica, nella sua espressione più nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici più profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all’uomo la necessità di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civiltà. Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino – un marchio che è anche una protezione – lo condanna all’esilio dove quello fonda la prima città. La vendetta non è degli uomini, spetta a Dio. Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell’uomo occidentale perchè col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro è servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilità della violenza che non raggiunge mai il suo fine.
Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore. A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle “Tigri Tamil”, votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di “Hamas” che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po’ di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull’isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l’Imperatore. I kamikaze mi interessano perchè vorrei capire che cosa li rende così disposti a quell’innaturale atto che è il suicidio e che cosa potrebbe fermarli.
Quelli di noi a cui i figli – fortunatamente – sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l’ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio. Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perchè io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali.
Niente nella storia umana è semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c’è raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, è il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell’evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L’attacco alle Torri Gemelle è uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non è l’atto di “una guerra di religione” degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, OrianaNon è neppure “un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale”, come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell’Università di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse da’ di questa storia una interpretazione completamente diversa. “Gli assassini suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato l’America: hanno attaccato la politica estera americana”, scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri – l’ultimo, Blowback, contraccolpo, uscito l’anno scorso (in Italia edito da Garzanti, ndr) ha del profetico – si tratterebbe appunto di un ennesimo “contraccolpo” al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo. Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l’elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi.
Il “contraccolpo” dell’attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall’installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l’Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell’Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana “a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico”. Così si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati.
Esatta o meno che sia l’analisi di Chalmers Johnson, è evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c’è, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi “amici”, qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa è stata la trappola. L’occasione per uscirne è ora. Perchè non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perchè non studiamo davvero, come avremmo potuto già fare da una ventina d’anni, tutte le possibili fonti alternative di energia? Ci eviteremmo così d’essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre più disastrosi “contraccolpi” che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche l’Alaska che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche – tutti lo sanno – sono fra i petrolieri.
A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull’Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese è legato al fatto d’essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell’Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l’India e da lì nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall’Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli “orribili” talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si è impegnata col Turkmenistan a costruire quell’oleodotto attraverso l’Afghanistan.
E dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la democrazia, l’imminente attacco contro l’Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti. E per questo che nell’America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell’industria petrolifera con quelli dell’industria bellica – combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington – finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all’interno del paese, in ragione dell’emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie libertà che rendono l’America così particolare. Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l’aggettivo “codardi”, usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, così come la censura di certi programmi e l’allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni.
L’aver diviso il mondo in maniera – mi pare – “talebana”, fra “quelli che stanno con noi e quelli contro di noi”, crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l’America ha già sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro. Il tuo attacco, Oriana – anche a colpi di sputo – alle “cicale” ed agli intellettuali “del dubbio” va in quello stesso senso. Dubitare è una funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere togliere l’aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d’aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande.
In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace. Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo “ufficiale” della politica e dell’establishment mediatico, c’è stata una disperante corsa alla ortodossia. E come se l’America ci mettesse già paura. Capita così di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan è un importante simbolo di quell’America che per due volte ci ha salvato. Ma non c’era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam? Per i politici – me ne rendo conto – è un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor più l’angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civiltà combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici.
Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche grandi responsabilità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto “a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia“, come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America. Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che è complicato. Ma non si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunità di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi. Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori? Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa è l’Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l’arabo, oltre ai tanti che già studiano l’inglese e magari il giapponese?
Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia. Mi frulla in testa una frase di Toynbee: “Le opere di artisti e letterati hanno vita più lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno più in là degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di più di tutti gli altri messi assieme”. Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per “gli altri”, per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provò una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufragò e lui si salvò a malapena. Ci provò una seconda volta, ma si ammalò prima di arrivare e tornò indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l’assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati (“vide il male ed il peccato”), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraversò le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c’era ancora la Cnn – era il 1219 – perchè sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell’incontro. Certo fu particolarissimo perchè, dopo una chiacchierata che probabilmente andò avanti nella notte, al mattino il Sultano lasciò che San Francesco tornasse, incolume, all’accampamento dei crociati.
Mi diverte pensare che l’uno disse all’altro le sue ragioni, che San Francesco parlò di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d’accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressività e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia. Ma oggi? Non fermarla può voler dire farla finire.
Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo all’orrore dell’olocausto atomico pose una bella domanda: “La sindrome da fine del mondo, l’alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l’uomo più umano?”. A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere “No”. Ma non possiamo rinunciare alla speranza. “Mi dica, che cosa spinge l’uomo alla guerra?”, chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. “E possibile dirigere l’evoluzione psichica dell’uomo in modo che egli diventi più capace di resistere alla psicosi dell’odio e della distruzione?” Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c’era da sperare: l’influsso di due fattori – un atteggiamento più civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire. Giusto in tempo la morte risparmiò a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Non li risparmiò invece ad Einstein, che divenne però sempre più convinto della necessità del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all’umanità un ultimo appello per la sua sopravvivenza: “Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto“.
Per difendersi, Oriana, non c’è bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c’è bisogno d’ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni. M’è sempre piaciuta nei Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha già i poteri della preveggenza, “vede” che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell’acqua ad affogare per salvare gli altri. Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell’incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden? “Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate”, scrive in questi giorni dall’India agli americani, ovviamente a mo’ di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose: una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile dell’esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse si.
L’immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del “nemico” da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell’Afghanistan, ordina l’attacco alle Torri Gemelle; è l’ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo però accettare che per altri il “terrorista” possa essere l’uomo d’affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il riso, muoiono di fame?
Questo non è relativismoVoglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sarà difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare. I governi occidentali oggi sono uniti nell’essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti. Molto meno convinti però sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio è diffuso così come è diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra. “Dateci qualcosa di più carino del capitalismo“, diceva il cartello di un dimostrante in Germania. “Un mondo giusto non è mai NATO“, c’era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Già. Un mondo “più giusto” è forse quel che noi tutti, ora più che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalità ed ispirato ad un po’ più di moralità.
La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perchè ora tornano comodi, è solo l’ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi. Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalità internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese più reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato né il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, né il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche. L’interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l’utilità del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sarà presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i “lavoretti sporchi”, di liquidare qua e là nel mondo le persone che la Cia stessa metterà sulla sua lista nera.
Eppure un giorno la politica dovrà ricongiungersi con l’etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze. A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa città mi fa male e mi intristisce. Tutto è cambiato, tutto è involgarito. Ma la colpa non è dell’Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una città bottegaia, prostituita al turismo! E successo dappertutto. Firenze era bella quando era più piccola e più povera. Ora è un obbrobrio, ma non perchè i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perchè i filippini si riuniscono il giovedì in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione. E così perchè anche Firenze s’é “globalizzata”, perchè non ha resistito all’assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato. Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso è scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch’io non mi ci ritrovo più. Per questo sto, anch’io ritirato, in una sorta di baita nell’Himalaya indiana dinanzi alle più divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, lì maestose ed immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo.
La natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d’erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perchè se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte. >>






giovedì 8 gennaio 2015

CI SONO GIORNI IN CUI IL MONDO E' TROPPO MATERIALE

Con distacco si osserva l'odio, la rabbia, il rancore, il potere, la violenza. 
Ci si domanda perché l'uomo abbia bisogno di così tanto buio per rinascere alla Luce.
"Il buio è solo Luce oscurata" risponde il cuore. E' altrettanto necessario. E' esperienza e crescita.
Il cuore, colmo di Luce, osserva attonito il dispiegarsi degli eventi e silenzioso illumina il buio con la fiducia. Fiducia nell'uomo, nonostante tutto. Fiducia nella Luce e nell'amore.
Tutto cambia e tutto si trasforma: il velo dell'ignoranza lascerà spazio alla chiarezza illuminata.





mercoledì 7 gennaio 2015

LA SAGGEZZA

Estratto da "La paura di Vivere" di Alexander Lowen:

"Saggezza significa vedere le cose nella loro essenza, al di là della superficie delle nostre contraddizioni, dove non c'è né bene né male, né giusto né sbagliato. Significa vedere l'essere umano come un animale quale esso è, che lotta per ottenere sicurezza ma anche per essere libero, per produrre ma anche per provare gioia, per raggiungere il piacere ma anche per conoscere il dolore, per sperare nella trascendenza ma anche per accontentarsi di essere limitato a un corpo finito. E' sapere che non esiste l'amore senza una possibilità di odio. E' sapere che c'è un tempo per vivere e uno per morire. E' conoscere la gloria della fioritura della vita che sembra appassire troppo in fretta, ma che lascia dietro un seme che fiorirà nella sua stagione. E' sapere che l'individuo esiste per celebrare la vita."




martedì 6 gennaio 2015

LA CONOSCENZA

Oggi pubblico un estratto particolare, soprattutto considerando che io stessa ho scritto un libro.
D'altra parte lo condivido profondamente in quanto ritengo l'esperienza la base della crescita.
I libri possono offrirci spunti di riflessione per supportare un lavoro consapevole strettamente individuale, ma non devono mai essere accolti senza un'adeguata elaborazione personale.
Ogni percorso è unico esattamente come lo siamo noi.

Estratto da "La paura di vivere" di Alexander Lowen:

"Quando la conoscenza è presentata sotto forma di libro, la gente la rispetta come se fosse sacra. Questo è pericoloso perché rovescia il ruolo della comprensione. Invece di basare la conoscenza sulla comprensione, cerchiamo di far derivare la nostra comprensione dalla conoscenza. E' come capovolgere una casa e farla poggiare sul tetto. Nessun genitore può capire un bambino leggendo libri sulla psicologia del bambino e nessun terapeuta può capire un paziente studiando un libro di psicologia clinica. La comprensione è un processo di empatia che dipende dalla risposta armonica di un corpo a un altro corpo."



LA GIOIA

La gioia. 
Cosa ci procura gioia?
La libertà. 
La libertà di essere, di poterci espandere, manifestare.
La percezione che si vive in profonda meditazione, 
quando il vuoto si trasforma in pienezza 
e la forma si trasforma in vuoto,
per appartenenza:
Uno è Tutto e Tutto è Uno.

Nella realtà, la libertà dell'essere deve fare i conti con l'unicità individuale (spesso vissuta nella sua accezione negativa di "diversità"), con gli schemi sociali e culturali e con i propri limiti mentali. 
Il percorso verso la consapevolezza diviene, quindi, il percorso verso la gioia: un cammino spesso faticoso volto a smantellare le proprie credenze, ad accogliere le proprie debolezze e ad affrontare le proprie paure. Per l'armonia dell'essere e la sua coerenza. 
Gioia è lasciar andare gli attaccamenti per vivere liberi, come l'acqua di un torrente di montagna che scorre fino al mare per unirsi ad esso. 
Nessun ostacolo avrà il potere di fermare l'acqua: questo elemento ci insegna che è sufficiente non rimanervi incagliati.





lunedì 5 gennaio 2015

NUOVE STELLE IN CIELO

"Nessun giorno è uguale all'altro, 
ogni mattina porta con sé un particolare miracolo,
il proprio momento magico,
nel quale i vecchi universi vengono distrutti
e si creano nuove stelle"

Paulo Coelho



Ci sono giorni in cui il tempo sembra fermarsi. All'interno un grande subbuglio e nel corpo un blocco, l'immobilità. E ci sono giorni in cui tutto si sblocca naturalmente e il silenzio interiore avvolge il mondo. Sono giorni speciali, di crescita. Sono giorni in cui la consapevolezza del momento presente rende tutto relativo. L'energia è in continua trasformazione, ma allo stesso tempo è appartenenza. Il cuore, nella sua pace immobile, risuona con l'universo. 
E' l'alba di un nuovo percorso di presenza consapevole. Sorge quando meno te l'aspetti, anche se un grande lavoro interiore ne ha preparato la manifestazione. Sorge quando si è pronti, naturalmente. 
Il vento dell'esperienza diviene leggera accettazione, al di là della comprensione. 
Il suono si trasforma in silenzio, il respiro è gioia. 

domenica 4 gennaio 2015

APRIRSI ALL'AMORE

Estratto da "La paura di vivere" di Alexander Lowen:

"Sentendoci non amati e non attraenti, abbiamo paura di stendere la mano per avere amore, di cercare o chiedere rispetto. Temendo una risposta ostile dagli altri, non ci permettiamo di parlare liberamente e di farci valere. Teniamo sotto controllo la nostra aggressività naturale. Rinunciamo ad affermare il nostro essere. Oppure possiamo diventare fobici o eccessivamente aggressivi per nascondere le nostre paure. Ma se ci ritiriamo in noi stessi o aggrediamo gli altri, saranno i nostri corpi a manifestare la nostra paura." 



In una società che ha reso il controllo uno strumento indispensabile alla sopravvivenza per lo stile di vita così lontano dai ritmi naturali che lo caratterizza, controllare tutto diviene la "normalità".
Si osservano le persone controllate e le si ammira per la loro capacità di restare sempre in piedi (non possono fare altrimenti, sono picchettate al suolo e rigide come baccalà). Si osservano le persone creative, alternative e fuori dagli schemi e le si giudica per la loro incapacità a conformarsi, rispondendo a quelle che vengono ritenute le priorità verso il successo. 
Abbiamo reso le barriere uno status symbol e la spontaneità un atteggiamento da cui fuggire. 
Ci siamo trasformati in tanti barattoli ben chiusi di latta colorati, a volte un po' ammaccati, ma sempre impenetrabili. Non ci siamo mai soffermati a pensare che come non può entrare nulla in una lattina sigillata, allo stesso modo nulla può uscirvi. Abbiamo creato la nostra stessa prigione di dolore per difenderci dalla sofferenza. Abbiamo sigillato il cuore dentro un barattolo. Amare o essere amati diviene un'impresa da Gig Robot d'acciaio. Solo noi possiamo scegliere di aprire un varco nella nostra latta: saremo forse più vulnerabili, ma lasceremo spazio alla gioia, all'amore e alla spontaneità, vivendo con totalità. In fondo gli schemi sono semplicemente quelli che abbiamo scelto.

sabato 3 gennaio 2015

ATTIRI CIO' CHE TEMI

Estratto da "La paura di vivere" di Alexander Lowen:

"Perché impariamo da alcune esperienze traumatiche e non da altre? Nessun bambino che ha toccato una stufa calda ripete l'esperienza. I nevrotici, ... , ripetono continuamente le stesse esperienze traumatiche. Se l'esperienza di un crollo è sepolta nell'inconscio, è anche proiettata nel futuro. Il sistema di difesa dell'Io, che si costruì in passato per negare il trauma e servì a salvaguardarsi contro una ripetizione dell'avvenimento, diventa la calamita che attrae l'esperienza da evitare."



Se abbiamo paura di trovarci di fronte una determinata situazione, è quasi certo che la incontreremo, in quanto siamo noi stessi ad attirarla. 
Quando viviamo esperienze molto dolorose, tendiamo a rimuoverle e a sotterrarle nell'inconscio senza elaborarle: rimane però attiva la difesa instaurata per tutelarsi dal dolore. Questo atteggiamento non farà che trattenere il pesante bagaglio di dolore dell'esperienza e il percorso evolutivo ci riproporrà esperienze similari per permetterci di elaborarle e crescere. E ci sentiremo vittime sacrificali del destino sempre a lottare contro la stessa sofferenza. Quando distrutti e sfiniti ci arrenderemo alla vita e accetteremo di affrontare l'esperienza con consapevolezza, la paura svanirà e potremo procedere. 

venerdì 2 gennaio 2015

LA PAURA DELLA MORTE

Estratto da "Paura di vivere" di Alexander Lowen:

"La paura della morte è una delle valli che dobbiamo attraversare nel viaggio a ritroso nella nostra infanzia e prima fanciullezza. Dobbiamo affrontare la paura della morte  che è in noi e ammettere che deriva da un desiderio di morire. Il desiderio, a sua volta, deriva dalla lotta che abbiamo ingaggiato per provare che siamo degni di amore, per superare la nostra vulnerabilità e negare la nostra paura. Ma questi sono obiettivi che non possono mai essere realizzati e, in realtà, non c'è un bisogno reale di realizzarli. Possiamo permetterci di abbandonare la lotta. ....
Abbandonare la lotta elimina il desiderio di morire e toglie la paura della morte. Apre la porta a una vita e a un essere che sono veramente pieni."



Leggendo queste parole di Lowen, collego immediatamente un altro termine: accettazione. Abbandonare la lotta è accettarsi per come si è. Non è un processo semplice quando non ci siamo sentiti accolti e amati dalle persone che ci hanno messo al mondo. E' importante a tal proposito tornare a guardare all'infanzia con la prospettiva dell'adulto e non più attraverso gli occhi sofferenti di un bambino o di una bambina. Quando si è piccoli si vedono i genitori come modelli infallibili e ci si sente invariabilmente responsabili degli eventi e allo stesso tempo impotenti di fronte ad essi. Si matura la percezione di essere sbagliati, non degni d'amore e si sprofonda nel dolore della solitudine e dell'incomprensione. Si lotta per trovare all'esterno quell'accettazione mancata e per tutta la vita si segue l'illusione di poter cambiare il passato trovando qualcuno in grado di colmare quel vuoto.  Anni di dolore e di frustrazione ci portano invariabilmente a mettere in discussione la lotta ed abbandonarla per abbracciare se stessi, il bambino o la bambina che siamo stati,  con amore e compassione . Nella nostra unicità completiamo l'armonia del tutto e se non ci fossimo stati ci avrebbero inventato esattamente così. Così come siamo.

giovedì 1 gennaio 2015

UN NUOVO INIZIO O UN GIORNO COME GLI ALTRI?

Il Capodanno è spettatore distaccato di un'infinità di promesse, aspettative e desideri di chi vuole cambiare, ma non trova mai il momento giusto per farlo. 
Il Capodanno è spettatore distaccato del dolore e della sofferenza di chi sta attraversando momenti difficili e non ha tempo per pensarci.
Da una parte osserva l'entusiasmo di un nuovo inizio, mentre dall'altra evidenzia la continuità del vissuto. 
In fondo non si discosta da tutti gli altri giorni, se si vive con consapevolezza. 
La trasformazione avviene quando siamo pronti ad accoglierla, così come il dolore si manifesta improvviso a travolgere le nostre vite quando meno ce l' aspettiamo.
La differenza sostanziale dipende da noi e risiede nel nostro modo di vivere gli eventi, nella nostra capacità di rimanere centrati nel presente, perché in fondo è proprio il qui ed ora l'unico momento a contare veramente. 
Non esistono date d'inizio, se non nella nostra mente, per l'interiore bisogno di convincerci che il domani sarà migliore perché cambia qualcosa al di fuori di noi. 
"Sii il cambiamento che vuoi veder avvenire nel mondo" diceva Gandhi. 
Non possiamo cambiare il passato così come non possiamo programmare il futuro. E' illusorio il pensiero di poterlo fare. Il rimanere agganciati al dolore del passato ferma il tempo, così come il vivere di continui sogni senza  realizzarli.
Il presente porta con sé i frutti di quello che abbiamo seminato e ripone nella terra i semi per i frutti di domani. Se il raccolto non è stato buono, facciamo tesoro di quello che l'esperienza ci ha trasmesso e prepariamo la nuova semina con gioia. 
In questo nuovo giorno, se proprio vogliamo attribuire un significato temporale al primo Gennaio 2015, facciamo nostra la consapevolezza che per essere nella gioia dobbiamo scegliere la gioia, per vivere con più leggerezza dobbiamo lasciar andare le aspettative, per non essere sopraffatti dal dolore dobbiamo rimanere centrati sulla Luce della fiducia che tutto passa e si trasforma.