sabato 27 dicembre 2014

PERCHE' TROVIAMO SEMPRE UN MOTIVO PER SOFFRIRE?

Estratto da "Come diventare un Buddha in cinque settimane" di Giulio Cesare Giacobbe:

"Da quando l'essere umano ha iniziato l'evoluzione psichica che ha fatto del pensiero la sua principale attività percettiva, il suo Io, cioè l'immagine che l'essere umano ha di se stesso, ha travalicato i limiti naturali del suo corpo.
Il nostro Io si è esteso ai nostri processi materiali, alla nostra consistenza  economica, ai nostri legami affettivi (quindi ad altri esseri viventi), ai nostri ruoli sociali, ai nostri stati psichici, ai nostri protocolli comportamentali, alle immagini stereotipate della nostra cultura.
In altri termini, a dei simboli concettuali.
Così noi oggi non ci identifichiamo soltanto con il nostro corpo, ma anche con la nostra casa, la nostra automobile, il nostro televisore, il nostro conto in banca, i nostri parenti, i nostri amici, la nostra professione, il nostro prestigio, il nostro ruolo sociale.
Questa è, secondo la psicologia buddhista, la radice della nevrosi e quindi della sofferenza umana.
Essa costituisce un processo nevrotico perché costituisce un processo di allontanamento dalla realtà, cioè dalla naturale coincidenza dell'Io con il corpo.
Nella nevrosi l'Io si identifica con una serie sempre più numerosa e complessa di simboli mentali costruiti sulla base di valori sociali o culturali, ma non naturali.
La sofferenza deriva evidentemente da una dilatazione dello stato di vulnerabilità dell'Io,  che aumenta con l'aumentare del numero degli oggetti con cui egli si identifica."



Interessante prospettiva quella di Giacobbe.
Osho stesso parla della sofferenza generata dall'identificazione con emozioni come la rabbia, ad esempio. 
Nel   IL CORAGGIO DI ASCOLTARSI e  nel nuovo volume IL RITMO DEL CORPO utilizzo il lavoro sul corpo per elaborare paure e debolezze, disgregare schemi mentali e abitudini e raggiungere la consapevolezza. L'ascolto della fisicità e il contatto con il corpo ci riportano immediatamente ad una dimensione più oggettiva e non filtrata dalla mente.
La centralità del corpo diviene quindi una chiave di volta importante per stare bene con se stessi.
Ovviamente quando il corpo si dilata, identificandosi con una miriade di simboli e relazioni, perdiamo la possibilità di un contatto diretto con esso e sprofondiamo nella confusione e nella sofferenza.
Ritornare al corpo significa abbandonare gli attaccamenti: per molti risulta quasi impossibile accettare anche solo l'idea di potersi bastare senza possedere nulla o nessuno.
Piuttosto che mollare la presa, si preferisce affondare con la nave stracolma di "tesori" nell'irrinunciabile ruolo del Capitano.

2 commenti:

  1. Sembra assurdo, ma la sofferenza ci dà libertà e forza. Ci dà le cosiddette "spalle larghe" utili ad elevarci, a migliorarci. Un'esistenza "senza sbarre" non avrebbe senso perché non creerebbe progresso. Se siamo giunti per una missione, quella va affrontata - e superata - nonostante la sofferenza. Una vita senza imprevisti è quella dell'uomo di potere o del criminale. Ma nessuno dei due progredisce. In astrale poi, sono tormenti a non finire. Se invece si affrontano problemi su problemi SENZA SCAPPARE ma risolvendoli, le opportunità di superare gradini di evoluzione sono fortissimi. Un grande aiuto ce lo danno preghiera e meditazione (la seconda più della prima) ed avere il coraggio di barcamenarsi tra le gioie (poche) e i dolori (tanti) del piano materiale.

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    1. Giuseppe, la sofferenza ci fortifica se, come scrivi, troviamo il coraggio di farne un punto di crescita, traendo l'insegnamento di vita in essa racchiuso per lasciarla andare. Purtroppo, spesso si rimane incagliati nella sofferenza e le spalle larghe divengono rigidi appendiabiti che reggono le redini della nostra vita. Condivido la tua riflessione su preghiera e meditazione: sono uno strumento prezioso per acquisire quel distacco così importante per vivere la vita, le sue gioie e i suoi dolori, con maggiore leggerezza.

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